la luce obliqua di
fine estate, preludio ad
ottobre, mi costringe a pensare a Lei, ad andare indietro nel tempo
fino al 1970 quando mi rivedo bambino giocare nella sabbia e
allora immagino bambino anche Lei intento a giocare nel
deserto.
Lei ed io abbiamo
qualcosa in comune: a entrambi è stato portato via un bene che non
ha prezzo, la spensieratezza e la gioia dell'infanzia; a Lei per un
tragico evento che testimonia come la guerra spesso non
sappia distinguere i bambini dai soldati, a me per un evento meno
tragico ma altrettanto straziante, essere cacciato dalla terra dove
sono nato e dove è nato anche Lei.
Sappiamo bene quanto è
bella e dolce la nostra terra: il cielo terso che riempie lo
sguardo, il ghibli che ti accarezza, la sabbia impalpabile che ti
avvolge e si fonde con te. A me restano solo i
ricordi, riflessi
dorati dello sciahi contro il sole fuggente della sera, mentre il
vento canta la sua melodia passando tra le foglie dei maestosi
eucalipti, nella terra più bella del mondo.
I nostri avi hanno combattuto una
guerra che oggi condanniamo, perché le guerre non sono mai una
cosa di cui andare orgogliosi: esse portano sempre con sé dolore e
sofferenza, anche se fanno parte della storia. Ma le nostre radici più
profonde sono invece
nascoste sotto la sabbia. Se scavassimo nella sabbia di Tripoli troveremmo certamente qualche moneta
romana, a ricordarci che forse quelle radici non
sono poi così lontane ed il nostro incontro era predestinato.
La
storia del dopoguerra è una storia di persone, perché i popoli
sono costituiti da individui e anche noi non sfuggiamo
a questa regola. Si può
generalizzare, come aqualcuno talvolta conviene, raccontando
che gli Italiani sono stati questo e quello o
che i Libici hanno fatto questo e quest'altro, ma la
realtà è che la storia dei ventimila italiani di Libia è composta
da ventimila storie diverse, ognuna in sé unica.
Ventimila persone
ciascuna responsabile direttamente, con il proprio comportamento, di
quello che ha fatto, di come si è comportata verso gli altri, di
essere stata onesta o meno, di aver rispettato gli altri o no, di
aver sfruttato quella terra e la sua gente oppure di averla amata con
tutto il cuore.
Oggi possiamo affidare
la memoria del passato
alla storia e guardare al futuro con serenità.
Ma Lei, Suo malgrado, ha
fatto di più: ha regalato all'Italia, il Paese delle mie radici, la
comunità tripolina con i suoi talenti artigianali ed
imprenditoriali, la sua tenacia, la tenacia di gente che è stata
capace di dissodare la steppa e far fiorire mandorli, olivi ed
agrumi dove prima era il deserto.
L'Italia non lo ha
capito,
ha preferito accogliere i suoi figli cacciati dalla Libia nei campi
profughi per disperderli nella penisola o lasciarli fuggire
all'estero. L'Italia non ha saputo far tesoro di quel dono,
incapace di comprendere come i talenti dei suoi figli d'oltremare
potevano essere reimpiegati proficuamente a sostegno dell'economia e
dell'imprenditoria. L'Italia ha preferito elemosinare dignitosi,
ma umilianti, posti di lavoro alimentando l'invidia per quelle misere
elargizioni considerate da molti ingiusti privilegi verso degli
italiani d'importazione, orfani della terra natale ed esuli stranieri
nella loro Patria.
Grazie a Lei,
l'orologio della comunità
Italiana di Libia si è fermato al 1970 conservando integra la sua
identità culturale, le sue memorie, le tradizioni, le gustose
rivisitazioni dei piatti tipici e l'amato dialetto arabo tripolino. Una comunità
che vuole ricordare il passato ma anche guardare al futuro senza
perdere i propri valori, perché siamo italiani orgogliosi di essere
nati in Libia.
La terra di Libia ha
perso irrimediabilmente
dei figli, adottivi certo, ma pur sempre suoi figli.
Era già avvenuto
in passato, preludio al nostro esodo come ci ricorda il famoso artista Herbert Pagani
con la sua lettera del 1987 che grande eco ha avuto non solo fra noi tripolini. Dovevamo andarcene
dalla Libia? Io
credo di sì affinché la Libia potesse rinascere a nuova vita; perché
l'amore per la terra che ti ha visto nascere e crescere è talmente
grande da farti accettare anche il sacrifico di allontanarsene. Non
sono certo d'accordo sul modo in cui questo è avvenuto, ed oggi
che i nostri paesi hanno finalmente raggiunto una nuova intesa, pesa
come un macigno il fatto che i nostri diritti violati non abbiano trovato equa riparazione. Resta però il rammarico
perché da
quel giorno d'ottobre, troppe persone sono morte senza poter
calpestare nuovamente la terra dove erano nate e che amavano con tutto il cuore.
Massimo Russo
Italiano di Libia
per il quarantennale del rimpatrio 7 Ottobre 1970 – 7
Ottobre 2010